A cura di Maria Oliva
L’esigua presenza delle donne nelle istituzioni e nei ruoli apicali delle organizzazioni pubbliche e private costituisce un elemento centrale nell’analisi delle tematiche di genere, come rilevato in precedenti articoli pubblicati sul nostro blog, nonché una delle principali questioni che orienta l’azione contemporanea di empowerment femminile.
Spesso bloccate in posizioni di middle management, ancorché esaltate per le loro qualità di lavoratrici qualificate, le donne faticano ancora a discostarsi dalla funzione di mero raccordo col top management e ad accedere a posizioni di maggior rilievo, retribuzione e prestigio, pur rappresentando la popolazione lavorativa mediamente più istruita.
Le riflessioni svolte hanno consentito di definire il fenomeno della sottorappresentazione femminile al vertice con l’espressione “soffitto di cristallo” o “glass-ceiling” e hanno altresì permesso di individuare i fattori che concorrono alla sua determinazione e di misurarne l’impatto su scala internazionale.
Il “Glass-Ceiling Index”: la situazione internazionale in cifre
A tal riguardo, il settimanale inglese “The Economist” ha stilato il c.d. “Glass-Ceiling Index” (“GCI”), indicatore che rileva annualmente il ruolo e l’influenza delle donne in ambito professionale tra i 29 Paesi membri più industrializzati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (“OCSE”).
Dal 2013, in occasione della ricorrenza dell’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, l’indice fornisce informazioni aggiornate sull’allocazione geografica delle opportunità di carriera femminili, combinando una varietà di parametri, quali: istruzione superiore, partecipazione al mercato del lavoro, livelli salariali, costi per l’accudimento dei figli, diritti connessi alla maternità e alla paternità, candidature alle business school e, non da ultimo, rappresentazione di genere nelle posizioni lavorative senior.
Secondo i dati emergenti dal monitoraggio riferito al 2022, Islanda, Svezia, Finlandia e Norvegia mantengono il primato nella parità di genere, assicurando supporto alle donne ai fini del completamento del percorso universitario, dell’ingresso nel mercato del lavoro e della progressione di carriera, come anche mediante strumenti quali l’attribuzione di congedi parentali e la concessione di forme di lavoro flessibile. Viceversa, Giappone e Corea del Sud occupano rispettivamente le ultime due posizioni della classifica, confermando l’attualità di un retaggio che impone alle donne di dover scegliere tra la carriera e la famiglia.
In tale contesto, l’Italia guadagna una posizione rispetto al 2016, piazzandosi al sedicesimo posto nel 2022, al di sopra della media OCSE e di Paesi come la Gran Bretagna e l’Irlanda.
L’indagine condotta sul campione di Stati OCSE osservati dal GCI mostra che, per quanto sulle donne non gravino impedimenti legali al raggiungimento dei traguardi lavorativi attesi (e, anzi, nonostante la parità sia un valore fondante dei moderni ordinamenti giuridici democratici), di fatto e in misura variabile da Paese a Paese, il pari accesso alle opportunità di carriera non è garantito.
Pertanto, è cruciale individuare le cause della concreta disparità di opportunità professionali e le possibili iniziative da adottare per contrastarla, assicurando l’effettività dei diritti.
“Soffitto di cristallo”: origine, significato e citazioni
Da cosa deriva, quindi, l’espressione “soffitto di cristallo” o “glass-ceiling”?
Il concetto di “soffitto di cristallo” fu usato per la prima volta dalla scrittrice francese femminista George Sand, pseudonimo maschile di Amantine Aurore Lucile Dupin che, nell’opera “Gabriel”, vi fece riferimento per descrivere il sogno dell’eroina di volare, metafora della sua ambizione ad innalzarsi al di sopra dei costrutti sociali di genere.
In seguito, l’espressione fu citata nel 1978 in un’intervista da Marilyn Loden e, nel 1984, fu adottata anche da Gay Bryant, fondatrice ed ex-direttrice della rivista “Working Woman” che, prossima ad assumere la direzione di “Family Circle”, evidenziava come le donne rimanessero bloccate nel “limbo” del management intermedio, senza riuscire a conquistare spazio nei ruoli apicali e scegliessero pertanto di perseguire carriere alternative come lavoratrici autonome o si predisponessero a uscire dal mercato del lavoro per dedicarsi al progetto di costruzione familiare.
L’immagine del “soffitto di cristallo” evoca quindi l’idea di una barriera trasparente o perfino invisibile – eppure tangibile, dura e spesso insormontabile – che preclude alle donne di scalare i vertici in ambito professionale o che, quantomeno, ostacola la progressione di carriera delle lavoratrici (e/o di altre categorie sociali marginalizzate, alle quali è stato esteso l’uso della metafora), dando luogo alla segregazione occupazionale di genere di tipo verticale.
Le donne sono, dunque, in grado di guardare verso l’alto, cogliendo quanto lì avviene, senza percepire la presenza di ostacoli o di condizionamenti alla loro progressione di carriera, salvo poi scontrarsi con la soglia invalicabile del “soffitto di cristallo”, a differenza dei colleghi uomini, che riescono più facilmente a scalare le posizioni e a fare carriera.
Nel 2007, le psicologhe Alice H. Eagly e Linda L. Carli approfondirono questo concetto nel libro “Through the Labyrinth: The Truth About How Women Become Leaders”, coniando addirittura l’espressione “labirinto di cristallo”, ad indicare il percorso di carriera tortuoso che le donne sono chiamate ad affrontare, a causa degli ostacoli legati al genere, in contrasto con i più lineari percorsi di carriera maschili.
“Glass-ceiling”: le cause del problema
Il fenomeno del “soffitto di cristallo” non ha una genesi unitaria, ma si presenta come il prodotto di un complesso intreccio tra componenti sociali, culturali e psicologiche, che generano meccanismi più o meno consapevoli di discriminazione o di esclusione dell’offerta di lavoro femminile dal vertice della gerarchia organizzativa e che orientano le preferenze delle donne e le loro scelte professionali.
In primo luogo, il “soffitto di cristallo” rispecchia il portato patriarcale della codificazione di “ruoli di genere”, a partire dai corrispondenti “stereotipi di genere”, cioè ricostruzioni acritiche e automatiche – apprese, veicolate e perpetuate nei processi di socializzazione – che associano agli individui un paniere convenzionale di inclinazioni, attributi o caratteristiche, in virtù della mera appartenenza a un genere.
L’adesione agli stereotipi di genere si traduce in pregiudizi di genere (il c.d. “gender bias”), ossia distorsioni cognitive e/o errori di valutazione, che vengono interiorizzati dagli individui come singoli – donne incluse – e recepiti dalla collettività, forgiando statiche e arbitrarie differenziazioni di ruolo sociale e professionale.
In ambito lavorativo, l’esistenza di preconcetti legati al genere determina, in primo luogo, il c.d. “sex typing”, ossia una marcata connotazione di genere delle professioni, che fa leva su presunte differenze di abilità e di qualità connaturate al genere.
Pertanto, mentre a causa degli stereotipi di genere una maggiore concentrazione della rappresentanza maschile si addensa nelle professioni “STEM” (acronimo di “science, technology, engineering and mathematics”), più remunerative e vantaggiose in termini di opportunità di carriera, le medesime credenze limitanti relegano le donne in un più ristretto novero di settori e posizioni, tipicamente meno redditizi e idonei a favorire la progressione di carriera (es.: quelli in ambito umanistico e i mestieri di assistenza e cura), determinando una forma di segregazione occupazionale di genere di tipo orizzontale.
I pregiudizi di genere e i retaggi delle discriminazioni perpetrate ai danni delle donne, per secoli ritenute incapaci di occuparsi della cosa pubblica, condizionano, quindi, la libera scelta femminile in ambito professionale e vincolano le donne sul piano delle opportunità di carriera, esponendo, inoltre, le organizzazioni a possibili esternalità negative, in termini di perdita di efficienza allocativa, di produttività e di chance di sviluppo, dovute alla non corretta valorizzazione del capitale professionale femminile.
La sussistenza di “archetipi” di genere nel mercato del lavoro, influenza tanto l’acquisizione di specifiche hard skill da parte dei/delle lavoratori/lavoratrici, quanto le “attese” di genere sul piano delle soft skill (assertività e dominanza, intese come canoni “maschili”, da un lato, in contrapposizione a collaborazione e inclusione, intese come tratti “femminili”) e dello stile di leadership, culturalmente basato sul modello “maschile” prevalente, in quanto legato alla maggioranza di genere al vertice.
Il radicamento degli stereotipi di genere e di una concezione univoca e monodirezionale di leadership nelle organizzazioni, tendenzialmente ancorata al retaggio “maschile”, è tale da invalidare spesso il giudizio previsionale sulla capacità delle donne di ricoprire posizioni apicali a parità di competenze con gli uomini, o da indurle ad interpretare lo stile di leadership dominante, nell’ipotesi di progressione di carriera.
Se le concezioni culturali stereotipate danneggiano in via diretta le aspirazioni delle lavoratrici, non sono da meno i fattori sociali, come anche quelli intrinseci alla condizione femminile, che hanno un riverbero mediato e indiretto sulle potenzialità di carriera delle donne.
Ancora troppo spesso, infatti, il pregiudizio legato alla maternità pesa in maniera decisiva sui percorsi di carriera delle donne, alle quali sono precluse opportunità di promozioni future (la c.d. “child penalty”), a causa della perdita di esperienza lavorativa (anche se solo temporanea) – che va a discapito dei benefici della formazione specifica ricevuta dalle lavoratrici e dei riconoscimenti da queste ottenuti – e in conseguenza della richiesta di un migliore work-life balance negli anni centrali per la carriera, che permetta loro di conciliare gli impegni professionali con quelli familiari.
Nonostante abbiano ormai sorpassato gli uomini per livello medio di istruzione, sulle donne gravano ancora, infatti, in massima parte, la gestione domestica e il carico di cura familiare, attività per definizione non remunerate e aggiuntive rispetto ai carichi di lavoro professionale; a questo proposito, secondo il rapporto mondiale “Care work and care jobs for the future of decent work”, pubblicato nel 2018 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (“OIL”), in Italia le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno (pari al 74% del totale delle ore di lavoro di assistenza e cura), contro il carico maschile di un’ora e 48 minuti, risultato che, con riferimento all’area OCSE, evidenzia la più ampia disparità di genere dopo Messico, Turchia e Portogallo.
Tale aspetto influisce in maniera significativa sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia, sotto tutti i profili: dalle possibilità occupazionali delle donne, che spesso rinunciano alla carriera o accettano lavori a tempo parziale (anche perché tendenzialmente meno abbienti del partner, per via del c.d. “gender pay gap”), al numero delle ore di lavoro professionale femminile retribuite e, quindi, ai livelli reddituali percepiti, sino alla qualità dello stesso lavoro professionale svolto dalle lavoratrici, le cui prospettive di carriera rischiano di essere pregiudicate anche dal maggior carico mentale dovuto all’iniqua suddivisione delle responsabilità familiari.
Che cosa si può fare, quindi, per risolvere il problema della segregazione occupazionale di genere di tipo verticale? E quali iniziative possono essere adottate per contrastare efficacemente il fenomeno del “soffitto di cristallo”?
“Glass-ceiling”: le possibili soluzioni
Un problema complesso impone soluzioni altrettanto complesse.
La parità di genere rappresenta un’emergenza sociale, economica e culturale ineludibile e il suo ottenimento passa anche dall’eliminazione degli sbarramenti occulti, che frustrano le ambizioni lavorative delle donne e impediscono loro di occupare spazio, anche e soprattutto al vertice delle gerarchie organizzative.
Per far fronte a questa sfida globale, è prioritario che le istituzioni e le organizzazioni pubbliche e private promuovano un cambiamento culturale, mobilitandosi per la realizzazione di politiche di parità, allo scopo di riequilibrare le tradizionali dinamiche di genere socialmente accettate.
In primo luogo, è necessario superare il preconcetto di una maternità escludente dal lavoro (ancor più se esercitato ai livelli apicali), per abbracciare l’opposto principio – confermato dalla scienza – che ravvisa in ciascun “ruolo” aggiuntivo agito una preziosa occasione di arricchimento e di sviluppo di nuove competenze trasversali, che possono essere efficacemente valorizzate (anche) nel contesto professionale.
In particolare, occorre favorire un’equa condivisione delle responsabilità lavorative e familiari, per ridefinire i caratteri dell’impegno professionale femminile e dell’impegno di assistenza, cura e gestione domestica maschile ed assicurare l’intercambiabilità dei ruoli di genere attualmente agiti in via prevalente.
Le politiche pubbliche, cruciali in questo processo, si sono rivelate sinora gravemente deficitarie nel nostro Paese: secondo gli ultimi dati OCSE, l’Italia si pone ben al di sotto della media dell’area con riferimento alla spesa pubblica per i servizi all’infanzia e rispetto agli indicatori dell’occupazione femminile, del tasso di fertilità e del tasso di povertà infantile, principalmente a causa delle difficoltà riscontrate sia dai/dalle giovani nel raggiungere una condizione lavorativa più stabile, sia in particolare dalle donne nel conciliare lavoro e famiglia, condizione che determina bassi tassi di natalità e di occupazione femminile (quest’ultimo è pari al 48%, contro la media OCSE del 59%).
Anche sul versante degli strumenti di organizzazione del lavoro a supporto alle famiglie, l’Italia è clamorosamente indietro: la flessibilità oraria, che potrebbe aiutare i genitori a conciliare le responsabilità lavorative e familiari, è poco attuata, cosicché lo scarso accesso a servizi di pre e dopo scuola, rende meno semplice lavorare a tempo pieno; al lavoro part-time ricorre invece il 31% delle donne, contro il 7% degli uomini, mentre soluzioni quali l’introduzione di un congedo di paternità equiparato a quello di maternità e la remotizzazione del lavoro, non sono state ad oggi (pienamente) implementate, nonostante nei Paesi nordici queste misure abbiano contribuito significativamente alla creazione di una maggiore eguaglianza di genere e all’incremento della produttività, anche a fronte della riduzione del numero di ore lavorate.
Tuttavia, gli strumenti d’elezione per raggiungere la de-segregazione occupazionale di genere sono l’educazione e la formazione, veicolate in famiglia e a scuola. Come notava nel 1973 Elena Gianini Belotti nel saggio “Dalla parte delle bambine” – opera che, a distanza di mezzo secolo, conserva una perdurante validità – la radice del problema risiede nel ruolo della socializzazione e dei valori con i quali i/le bambin* vengono educat*.
Secondo la tesi di Belotti, confermata dalla sua lunga esperienza educativa con genitori e bambin* in età prescolare, non esistono qualità specificamente appartenenti a un genere: pertanto, la tradizionale differenza di carattere tra maschio e femmina non è dovuta a fattori “innati” (ad es., l’indole o particolari inclinazioni), bensì ai condizionamenti culturali subiti nel corso dello sviluppo, finalizzati a conservare e trasmettere i valori sociali di riferimento, tra cui anche quello della “naturale” superiorità maschile, contrapposta alla “naturale” inferiorità femminile.
La chiave di volta dell’educazione consiste, quindi, nell’accordare a ciascun individuo la possibilità di svilupparsi in linea con i propri desideri, a prescindere dal genere di appartenenza.
Le prospettive per l’inclusione al vertice: la solidarietà e il linguaggio
Come abbiamo visto, per infrangere il “soffitto di cristallo” s’impone uno sforzo congiunto di tutt* gli/le attori/attrici in campo politico-istituzionale, economico e sociale e un dispiegamento di forze bipartisan.
In questa sfida, è fondamentale che le donne che sono state in grado di abbattere il “soffitto di cristallo” adottino un approccio solidale, supportando le altre donne e ponendosi come role model per le successive generazioni, scardinando metodi di selezione e di valutazione del personale poco trasparenti e meccanismi organizzativi che ancora avvantaggiano gli uomini a discapito delle donne, e dando infine cittadinanza a forme di leadership diverse.
L’auspicio è che la lingua possa dare impulso a questo cambio di passo culturale, cessando di riflettere e tramandare una visione del mondo che legittima ancora il principio dell’inferiorità e della marginalità sociale delle donne e la loro assenza nelle istituzioni e nelle posizioni di rilievo della società.
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Fonti
https://www.economist.com/graphic-detail/glass-ceiling-index
https://ecointernazionale.com/2021/05/soffitto-di-cristallo-infrangere-gender-gap/
https://www.linkiesta.it/2019/09/unposted-chiara-ferragni-eta-greta-thunberg/
https://www.noemahr.com/gender-bias-cosa-sono/
https://www.oecd.org/els/family/47701018.pdf
https://www2.supsi.ch/cms/iride/wp-content/uploads/sites/31/2022/10/221018_IRIDE_13-F.Billari.pdf
https://www.feltrinellieditore.it/opera/dalla-parte-delle-bambine-1/