A cura di Ilaria Scarpiello
L’estate è un momento prezioso per riflettere sulla propria professione. Occupandomi di marketing, mi è capitato di leggere articoli, magazine, libri sul tema: mi aiutano a raccogliere spunti e ragionare, per migliorarmi. Vorrei oggi condividere uno di questi pensieri con voi, che riguarda la segmentazione di genere nel marketing. Mi chiedo se davvero sia ancora efficace e se non sia solo uno strascico di stereotipi consolidati che continuiamo a portarci dietro, e che di certo non ci aiutano a migliorare la società nel suo complesso.
La definizione di “stereotipo” tratta dal sito dell’ Accademia della Crusca è: “opinione precostituita, semplicistica, generale, ripetuta meccanicamente, senza una valutazione personale”. Uno stereotipo consiste nell’attribuire alcuni tratti uguali a membri di un gruppo considerato precostituito e differenze tra membri di gruppi considerati distinti. Può riguardare l’etnia, l’età, il genere e infinite altre categorie.
Gli stereotipi nel marketing
Spesso gli stereotipi sono alla base dei meccanismi del marketing e della pubblicità, usati per semplificare la realtà sociale, categorizzare e classificare.
Tra i processi di lavoro nel marketing, la segmentazione dei target è infatti una della attività più importanti. Nella fase di scelta del target, cioè l’identificazione del cluster di persone a cui vogliamo rivolgerci per raggiungere uno specifico obiettivo, si fa ricorso appunto alla segmentazione (anche segmentazione di genere), che permette di suddividere il mercato in gruppi o segmenti usando determinati descrittori comuni.
Questo processo è da attuare con estrema cautela, perché il rischio di escludere e discriminare è altissimo. Comprendere le caratteristiche generiche del cluster quindi non basta, perché si tenderà a ragionare attraverso stereotipi consolidati, che non fanno bene a nessuno.
I segmenti e i dati delle ricerche potrebbero mostrarci chi sta comprando il nostro prodotto oggi, ma non ci diranno chi avrebbe acquistato il prodotto domani se non avesse trovato l’annuncio offensivo o, nella migliore delle ipotesi, irrilevante.
Quando si sceglie questa strategia, è necessario capire se i bisogni (che siano razionali o emotivi) dei diversi sessi differiscono. Tra tutti i dati che si hanno a disposizione su un consumatore, la cosa più utile che le aziende hanno bisogno di sapere non è più certamente il genere, semmai sono le abitudini e gli interessi. Ad esempio, nel settore alimentare è molto più rilevante sapere dove e con chi le persone mangiano, o se sono interessate a un’alimentazione sana.
La campagna “Cheers to all” di Heineken dello scorso inverno ci mostra come i drink non abbiano genere: non c’è motivo per cui la birra dovrebbe essere “da uomini” e il cocktail “da donne”.
Il marketing di genere credo oggi possa funzionare solo ed esclusivamente per prodotti che hanno una differenza evidente tra il sesso maschile e il sesso femminile, come capita per alcuni specifici prodotti farmaceutici. Anche se, in generale, sono proprio le case farmaceutiche, insieme ai servizi finanziari, ad apparire brand neutrali rispetto al genere.
Un settore che ha dato un forte segnale sul tema della segmentazione di genere è quello della cosmesi. Secondo un’analisi di Mintel (società di ricerche di mercato), si prevede una bellezza neutrale come tendenza globale senza alcuna differenza di genere. Panacea, un brand per la cura della pelle direct-to-consumer, cerca di indirizzare le proprie proposte sulla pelle “gender-agnostic” con una gamma di prodotti semplificata ispirata alla filosofia K-beauty e affermando esplicitamente: “Vogliamo abbattere la convinzione che la bellezza è limitata a un gruppo specifico di persone” (D-Repubblica, “No-gender beauty. Perché gli uomini hanno iniziato a utilizzare prodotti femminili?”). È dello scorso anno una campagna provocatoria di L’Oréal che stravolge il concetto di segmentazione: mostra dei rossetti e si rivolge agli uomini. L‘obiettivo non è vendere il rossetto, bensì comunicare un messaggio preciso: le donne in posizioni dirigenziali sono preziose per il business.
Lo stereotipo è un limite per la società, ma anche per le aziende
Indubbiamente la costruzione dei target aiuta a desumere la buyer personas, quindi rappresentazioni di persone che si trovano nel target, ma questo processo risulta a volte troppo limitante. Il problema è che dalla segmentazione di genere possono scaturire i pregiudizi, quindi visioni distorte del mondo, che non aiutano a scardinare tutti quei bias di cui la nostra società è intrisa.
I brand in tutto il mondo, chi più chi meno, lavorano da diversi anni su strategie Inclusion & Diversity, perché è chiaro che il problema è esistito ed esiste. Questo lavoro in corso ha visto un’accelerazione dopo l’assassinio di George Floyd: sempre più aziende stanno lavorando dal di dentro, con programmi di formazione sui bias cognitivi, la revisione dei meccanismi HR di recruitment, retention e promozione, nuovi metodi per sviluppare le idee creative alla base delle scelte di marketing e della pubblicità, e molto altro.
Non è un problema solo per la nostra cultura e identità, lo è anche per il business delle aziende: secondo alcune ricerche, la cauterizzazione forzata e il ricorso a stereotipi di genere non mettono a proprio agio i consumatori, che sono spinti ad acquistare prodotti di competitor, o addirittura non vengono neppure intercettati. Quindi attenzione!
Dallo studio AdReaction di Kantar, emerge che i brand che comunicano in modo equilibrato verso entrambi i generi hanno un valore medio più alto, $ 20,6 miliardi, contro i $ 16,1 miliardi dei brand sbilanciati sulle donne e i $ 11,5 miliardi dei brand sbilanciati sugli uomini. Emergono inoltre diversi risultati positivi per i brand che sfidano gli stereotipi. I brand dovrebbero partire dal formulare i contenuti per rispondere ai bisogni di entrambi i generi. Copy adeguati possono evitare grossi errori.
La pubblicità dovrebbe rispecchiare fedelmente la cultura aziendale. È importante che le campagne sull’uguaglianza tra generi siano incluse in programmi aziendali di più ampio respiro, che vadano oltre le attività di marketing, che abbiano quindi un impatto positivo anche sulla comunicazione interna e sull’HR – e trasversalmente su qualsiasi funzione e livello di seniority, evitando il ricorso a soluzioni stereotipate all’interno, così come verso il mondo esterno.
È necessario uno shift culturale, a cui credo che solo noi generazioni più giovani possiamo contribuire.