A cura di: Greta Reccia
A distanza di due anni dall’esplosione della pandemia legata al covid-19, è innegabile che ci sia stato un profondo cambiamento del nostro modo di vivere il rapporto con il lavoro. L’ambito lavorativo rappresenta uno dei campi piú prolifici all’interno della nostra vita, non solo perché costituisce la dimensione in cui investiamo la gran parte delle nostre energie e del nostro tempo, ma anche perché le pratiche lavorative ed il contesto sociale annesso contribuiscono a formare un sostrato culturale fatto di concetti e valori che influenzano il rapporto con noi stess* e con gli/le altr*.
Lavorare ci permette di costruire una parte di noi stess*, di individuarci e di acquisire consapevolezza delle nostre capacità, di autodefinirci e di differenziarci rispetto alle altre persone che ci circondano nelle varie sfere della nostra vita.
È incredibile che, nonostante questo concetto sia da sempre presente nelle nostre coscienze, soprattutto perché intrinsecamente connesso con l’idea stessa di esperienza lavorativa, ci siano voluti anni affinché emergesse in forma così nitida come è accaduto nel mondo del lavoro post-covid.
Il re-building a cui stiamo assistendo dopo due anni in cui siamo stat* costrett* a sconvolgere i nostri modi di vivere e pensare al lavoro, e che pone le aziende e le loro politiche al centro, ha come fulcro il recupero dell’individualità di ciascun* di noi.
Memori di un’esperienza passata che ha imposto una cultura “massificatrice” all’interno del mondo del lavoro, ispirata da politiche, regole e strutture organizzative che le aziende hanno adottato assecondando un principio di egualitarismo nel trattamento dei/delle dipendenti, ci stiamo progressivamente avviando verso il riconoscimento di una verità ancora piú fondamentale: non siamo tutt* uguali.
Perché ci sia servito il covid-19 per arrivare a questa conclusione, è facilmente comprensibile se si considerano alcuni fattori che la pandemia ha portato con sé.
In primo luogo, la pandemia ha comportato l’imposizione per le persone ad evitare di uscire per preservare la propria salute e quella degli/delle altr*, costringendole ad abituarsi ad un regime di fruizione restrittivo nell’economia degli spazi di condivisione.
La conseguenza dello stare in casa forzato è stato il ritrovamento, se non in alcuni casi la costruzione ex novo, di un’area di comfort alla quale probabilmente ci era sfuggito di dare il giusto peso in passato.
Parlando di una prospettiva che va oltre la dimensione puramente fisica, un forte trend sociale che è stato inaugurato dal covid-19 si è manifestato con il fatto che le persone hanno cercato di recuperare sicurezza all’interno dei propri spazi sociali e/o fisici ben consolidati, strutturati nella forma di rapporti personali e professionali, luoghi e contesti lavorativi.
L’iniziale incoraggiamento a stare in casa per sentirsi sicur* e salv* rispetto ad una potenziale minaccia per la propria vita, ha comportato un cambiamento radicale delle nostre abitudini, da cui difficilmente potremo tornare indietro.
Le aziende si sono rese conto di quanto la garanzia di sicurezza sia importante e quanto di questa garanzia passi anche attraverso la flessibilità che si è in grado di garantire ai/alle propri/proprie dipendenti rispetto al luogo di lavoro e alla capacità di assecondare i loro equilibri, che mettono in relazione la gestione della vita professionale con quella personale.
Per questo motivo, grazie alla prassi dello smart working, è venuta ad emergere una consapevolezza diversa e che guarda ai/alle dipendenti secondo una prospettiva piú “integrale”, nella quale è compresa la loro dimensione lavorativa ma anche la loro specificità come individui.
Lo sviluppo tecnologico e la digitalizzazione sono stati i vettori che hanno consentito questo percorso di integrazione delle varie sfere della nostra vita, permettendo alle persone e alle aziende di gestire le relazioni e le comunicazioni in modo efficace, bypassando la circostanza della presenza fisica, ma soprattutto determinando una relativizzazione dei luoghi fisici, che è stata alla base della caduta di tanti preconcetti che facevano parte della cultura lavorativa delle aziende, e che si basavano su un legame molto forte tra il concetto di performance lavorativa e la presenza in ufficio.
I/Le datori/datrici di lavoro hanno dovuto riconsiderare i parametri attraverso i quali erano soliti valutare i/le dipendenti nel momento in cui si sono resi* conto che la qualità del loro lavoro “da casa” non solo non è stata intaccata, ma per certi versi è anche aumentata rispetto a prima, proprio perché le persone sono riuscite a trovare una nuova misura che permettesse loro di bilanciare la gestione di vari aspetti della quotidianità attraverso una maggiore flessibilità spaziale e temporale.
Tutto questo ha portato, in definitiva, le aziende a diventare piú accoglienti verso i/le dipendenti e soprattutto a valorizzare le loro individualità attraverso delle politiche interne che abbracciano l’idea di inclusione e di valorizzazione delle diversità, intese come risorsa e patrimonio delle organizzazioni lavorative e che possono rappresentare una fonte importante di arricchimento culturale, oltre che economico.
Il tema della Diversity and Iinclusion è diventato uno dei principali trend che ispira le politiche aziendali post- covid e che si puó declinare secondo una prospettiva che consente di riconoscere le caratteristiche del/della singol* in base a numerosi fattori – che hanno a che fare con il genere, l’istruzione, l’età, l’etnia, l’orientamento sessuale ecc. – e di accoglierle come elementi da valorizzare all’interno delle organizzazioni aziendali.
È molto interessante vedere come la D&I viene ad intersecarsi con il tema del rispetto del well being dei/delle dipendenti, che si basa a sua volta su una mutata prospettiva che le aziende hanno adottato nei loro confronti. Questo cambiamento è sostanziato, infatti, da dati che evidenziano quanto il tema della corretta gestione del rapporto tra vita lavorativa e vita professionale sia particolarmente sentito, soprattutto da alcune categorie sociali.
Le donne, ad esempio, sembrano particolarmente sensibili alla possibilità di riuscire a preservare il proprio work life balance acquisito grazie al regime di remote working post-pandemia. Una delle motivazioni per cui questa necessità sia stata piú sentita dalla popolazione femminile riguarda probabilmente il fatto che, tipicamente, essa viene chiamata a rivestire diversi ruoli nella società e a ricoprire relative responsabilità che afferiscono a dimensioni professionali, familiari e personali.
Sicuramente le donne stanno vivendo ancora piú intensamente questo processo di inclusione nella dimensione lavorativa secondo una prospettiva olistica, e lo si puó notare dalla crescente attenzione che le aziende man mano stanno riponendo nel riuscire a fare in modo che esse possano essere valorizzate all’interno dei contesti professionali secondo varie modalità, che vanno nella direzione sia di offrire maggiori opportunità di sviluppo professionale, sia di puntare su politiche di welfare che possano andare incontro alle loro necessità extralavorative, fino ad attribuire piú ruoli di responsabilità in azienda con lo scopo di minimizzare il piú possibile il gender gap presente nei gradi manageriali.
In definitiva, il tema della valorizzazione dell’identità del/della singol* è diventato non solo il leitmotiv che ispira e struttura le nuove politiche di trattamento dei/delle dipendenti da parte delle aziende, ma anche una consapevolezza rivoluzionaria che è destinata sempre di piú ad affermarsi come valore culturale all’interno del mondo del lavoro.
Il lascito piú importante di questi due anni è stato sicuramente il superamento di una visione che ci siamo portati dietro per tanto tempo, e che coincide con una separazione tra diverse sfere della nostra vita con una conseguente frammentazione della nostra identità, laddove è richiesta la capacità di manifestare determinati comportamenti e, di conseguenza, di assumere certi atteggiamenti caratteristici del contesto cui dobbiamo fare riferimento.
In quest’ottica, tale superamento, che si traduce in una valorizzazione di una dimensione piú unitaria del/della singol*, apre le porte all’acquisizione di un nuovo approccio da parte delle aziende che ha a che fare con il concetto di intersezionalità, che comporta la capacità di guardare al/alla singol* come il frutto di una sovrapposizione e di un’integrazione, appunto, di identità sociali molteplici, le quali vanno tutelate e protette perché parte della sua unicità.
Riprendendo l’esempio femminile citato poco fa, risulta chiaro quanto questo mutamento culturale che sta avvenendo nel mondo del lavoro sia stato impattante, soprattutto perché ha fatto emergere una serie di problematiche e di anacronismi spesso legati a questioni relative all’ineguaglianza o a comportamenti discriminatori presenti nei contesti lavorativi.
Sulla base di tutti questi cambiamenti, possiamo dire che la grande sfida posta oggi alle aziende dal mutato scenario lavorativo riguarda la loro capacità di gestire il pluralismo che la pandemia ha evidenziato secondo vari punti di vista, non solo preservandolo ma anche affermandolo come valore e fonte di ricchezza.
La pandemia ci ha dato una lezione che difficilmente potremo disimparare, dalla quale parte un processo di rinnovamento che è contemporaneamente una nuova “umanizzazione” del processo lavorativo, nonostante la pratica del remote working e dell’abuso delle call virtuali aprano la porta a nuove sfide future.
Fonti:
https://hbr.org/2022/01/11-trends-that-will-shape-work-in-2022-and-beyond
https://www.kornferry.com/insights/featured-topics/future-of-work/2022-future-of-work-trend
https://www.pwc.com/gx/en/services/people-organisation/global-diversity-and-inclusion-survey.html
https://www.hrmagazine.co.uk/content/comment/what-are-the-d-i-trends-in-2022